C'era una volta la posta: don Rolando e donna Maria

Fernando Sparvieri (da SanSalvoantica)
16/02/2018
Territorio
Condividi su:

I  colpi di martello del fabbro che risuonavano sull’incudine,  il ticchettio del martello del calzolaio sulle mezze suole delle scarpe, lo sfregare della sega del falegname su ruvidi pezzi di legno, i colpi secchi d’accetta per spaccare la legna, gli zoccoli ferrati dei cavalli che si infrangevano sui selciati: erano questi alcuni  rumori quotidiani di una San Salvo d’altri tempi, che frammisti al cinguettio dei passeri ed al garrire frenetico delle rondini a primavera, davano vita quotidianamente ad una specie di concerto in cui l’uomo e la natura scandivano all’unisono i tempi dei giorni e delle stagioni.

Ve ne era uno, però, di rumore, assai diverso: un “bum bum... bum bum...” che riecheggiava nell’aria ad una certa ora della giornata, sopratutto d’estate, nel silenzio a volte assordante di P.zza San Vitale. Somigliava molto al suono di una grancassa: colpi di tamburo che  si ripetevano ad “libitum”, per minuti e minuti, con un ritmo cadenzato.

Per un pò smetteva e poi di nuovo ricominciava. 

Era Don Rolando Cirese, affettuosamente chiamato dai sansalvesi Do’ Rolande la poste, direttore all’epoca dell’ufficio postale di San Salvo, che timbrava le lettere e cartoline in arrivo ed in partenza.

Con quel suo timbro, che era un bel timbrone… grande, con l’impugnatura di legno e la parte timbrante in metallo, Do’ Rolande, battendolo con forza, una volta sul tampone dell’inchiostro ed un’ altra sul documento, dava vita a quella specie di suono, amplificato dal  bancone su cui lavorava, che fungeva da cassa armonica.

Quando sentivo quel suono, io, forse perchè già da bambino avevo il ritmo musicale nel sangue, mi accostavo alla porta d’ingresso della Posta e furtivamente osservavo.

Do' Rolande, con le mezze maniche nere alle braccia, scorgendomi mi lanciava uno sguardo indifferente e poi ricominciava. A dire il vero Do’ Rolande era un po’ lento, anche con il timbro. Come tutti i Cirese se la prendeva un pò comoda.  

Donna Mari', invece, sua moglie, impiegata allo stesso ufficio, era decisamente più dinamica, anche quando toccava a lei timbrare. Scorgendomi mi sorrideva e mi invitava ad entrare.

Era una coppia perfetta. Si compensavano a vicenda. Do’ Rolande era un po’ taciturno e bisognava quasi sficcargli qualche parola dalla bocca per udire la sua voce, mentre Donna Mari', appartenente alla famiglia dei Labrozzi, con un portamento da gran signora, era prodiga di consigli e di sorrisi nei confronti di chi le chiedeva informazioni. Dava loro una mano, nel senso che era impiegata allo stesso ufficio, la signora Evelina Cirese, sorella di Do’ Rolande, che era sposata con il maestro Enrico Maiarota, trasferitasi successivamente con la famiglia a Chieti, dove diresse un ufficio postale.

L’ufficio postale di Piazza San Vitale, l’unico che c’era a quei tempi, ed era già troppo, si trovava dove oggi vi è il Bar di Osvaldo “Il quadrilatero”. Era una casupola a pian terreno, esternamente dipinta con una tinta giallastra. Su una parete esterna, quasi sopra la porta, a mò di bandiera, campeggiava la famosa insegna circolare gialla con la scritta blu “PT - Poste”. Su un’altra parete, invece, incassato nel muro, vi era l’imbucatoio in metallo rosso scolorito.

Il suo interno  somigliava un pò a quegli uffici postali che si vedono in certi  films del Far West: vi era un pavimento rialzato con tavolacci che scricchiolavano sotto i passi, un bancone con il vetro per ricevere il pubblico, qualche scaffale, un telegrafo seminascosto, una stufa per riscaldarsi d’inverno, alla cui accensione era addetta la freddolosa signora Evelina, e.. qualche berretto da postino, buttato lì su un tavolo, sopratutto d’estate.

E sempre d’estate, quando la finestra era aperta per il caldo, da quell’ufficio fuoriuscivano all’esterno altri piccoli rumori che destavano la mia curiosità di bambino.

All’improvviso, in orari non prestabiliti, si udiva un ticchettio, simile a colpi dati da un picchio sulla corteccia di un albero o a piccoli colpi di bacchetta sull’orlo in metallo del rullante della batteria, che si impadroniva del silenzio di Piazza San Vitale.

Era un aggeggio, che poi seppi, quando divenni più grande, che si chiamava telegrafo.

Era sempre Dò Rolande che se ne occupava. Ricordo che con il dito medio dava dei colpetti su un tasto producendo un ritmo a volte regolare ed altre sincopato, come crome tra semiminime e biscrome tra crome. Altre volte, invece, all’improvviso quell’aggeggio si metteva, come per magia, in azione da solo.

Finito il ticchettio, Do’ Rolande, serio serio, senza mai scomporsi, si faceva scivolare tra le dita  delle lunghe striscioline di carta, arrotolate su se stesse, che erano fuoriuscite dall’apparecchio. Poi, con una calma serafica, prendeva un foglietto di carta gialla, vi scriveva sopra con una penna stilografica, chiamava il postino e gli diceva di portarlo a casa di qualcuno. Era il telegramma.

Anche i postini di quei tempi avevano per me bambino un non so che di artistico e di musicale. Mi ricordavano la banda che veniva alla festa di San Vitale. Indossavano una divisa color canna di zucchero, con un berretto da bandista con uno stemma che raffigurava, guarda caso, una trombetta.

In quell’ufficio vi lavoravano due postini ed erano entrambi simpatici. Uno si chiamava Vitale Pellicciotta, persona seria e ligia al dovere, l’altro invece si chiamava Luigi Torricella, detto Luegge Capàune, un brav’uomo robusto e grosso, rosso di carnagione, con due occhi intelligenti che apparivano piccoli nel suo faccione, che aveva sempre la battuta pronta. Con le loro divise non incutevano in noi bambini nessun timore, al contrario dei carabinieri alla cui vista, da lontano, scappavamo per timore che ci portassero alla casa di correzione.

A modo loro, anche i postini, erano dei suonatori: suonavano a quei pochi campanelli che c’erano nelle case o a lu “tuzzuluataure” (al bussatoio).  Quando  il campanello invece non c’era, con le nocche delle dita indice e medio, davano due colpetti secchi “toc toc” alle porte dicendo “posta!!!”

Forse perchè ogni bambino percepisce delle sensazioni diverse da quelle dei grandi,  quell’Ufficio Postale, che era un luogo serio ed istituzionale, per me era un luogo ludico e di armonia, e non solo musicale.

La gente vi si recava per lo più quando non andava in campagna  e qualcuno, entrando, si toglieva persino il cappello. Eravamo all'incirca 4000 anime. Si sostava volentieri e rispettosi al cospetto di Don Rolando e Donna Maria. Non vi era la fila per riscuotere le pensioni, perchè le pensioni non c’erano;  non si effettuavano  decine e decine di versamenti, perchè c’era poco da versare; non si era insofferenti nell’attesa allo sportello perchè spesso non si sapeva dove andare; non vi era l’ansia di riscuotere, perchè non vi erano molti soldi da ritirare.

Oggi invece il tempo è denaro, la vera musica che risuona nell’ufficio postale.

Ognuno è figlio del suo tempo.

Ai tempi di Do’ Rolando e Donna Maria, vi erano altri ritmi ...  

Era tutta un’altra musica.

 

 L'ultima foto di Don Rolando Cirese dentro il suo Ufficio Postale.
Qualche ora dopo (inizi anni '60) il tetto dell'edificio crollò. Per fortuna il crollo avvenne nelle ore notturne.
Successivamente venne ricostruito un nuovo edificio in Via G. de Vito.

 


Donna Maria Labrozzi e Don Rolando Cirese, ritratti durante un matrimonio.

Sposi 31 Ottobre 1957: Ntonie de Carruzzire (Antonio Fabrizio) e Olga Ilda Enelda Fabrizio, durante il ritorno a casa dopo il rito religioso in chiesa in P.zza Municipio (ora P.zza San Vitale). Intorno agli sposi i bambini alla caccia dei confetti dopo aver gridato fumì!  Sullo sfondo è visibile a destra il vecchio ufficio postale, al cui posto oggi vi è il Bar del Quadrilatero, mentre sulla sinistra  la casa di Tumassine Russo , la prima ad essere demolita per allargare la piazza, che era ubicata proprio dinanzi alla vecchia torre campanaria ed all'ingresso della Chiesa di San Giuseppe                               

Leggi altre notizie su SanSalvo.net
Condividi su: