Agli inizi degli anni ottanta alla Marina fu costruita una palazzina con quattro scale, destinata ad una ventina di famiglie. La costruzione fu a cura dell’Istituto autonomo delle case popolari, mentre la destinazione fu decisa dal Consiglio comunale, nel quale, al tempo, furono espresse anche delle perplessità . Si temeva che i futuri assegnatari restassero isolati, in quello che avrebbe potuto diventare un quartiere dormitorio. Invece, a distanza di una trentina danni, bisogna dire che quella operazione è riuscita sia sotto il profilo dell’integrazione sociale che della vivibilità dei nuovi residenti, che si sono anche inseriti nel contesto esistente oltre la Ss 16. Infatti, le venti famiglie (diciannove delle quali provenienti da San Salvo), probabilmente per omogeneità culturale, hanno saputo dare vita ad un luogo identitario, relazionale e storico, che è il contrario del non luogo raccontato da Marc Augè nel suo fortunato Non-lieux. Le case popolari della Marina, antropologicamente parlando, vanno considerate un luogo autentico, perché tra gli abitanti si sono stabilite relazioni amicali ed anche famigliari (una coppia di ragazzi si è conosciuta lì e si è poi sposata). I giovani si frequentano, gli anziani si rispettano. Tutti hanno superato i rispettivi quartieri di provenienza, sia pure conservando rapporti delle precedenti relazioni. Molte donne e pensionati passano parte del proprio tempo libero nei piazzali antistante e retrostante il fabbricato, dove si dialoga, si scherza, a volte si polemizza, come avviene in tutte le comunità di vicinato, nei quartieri dei centri urbani e nelle frazioni dei paesini. Si gioisce quando arrivano le cicogne e si piange quando uno o una del luogo ci lascia. I sentimenti sono sinceri e profondi, perché le relazioni stabilite sono sincere e profonde.
Maria Amoroso l’avevo conosciuta quando le nostre famiglie si trasferirono in quel luogo, cioè nel 1982. Suo fratello Franco lo conoscevo già : me lo ricordo portiere nei tornei di calcio. Lei, allora, era poco più che ventenne. Io appena diciassettenne. Mia sorella ed io, con Maria e Franco, Giovanni e Daniela, Antonello e Claudio, Alfredo e Monia, Maurizio e Donatella, Costantino e Anna Lucia, Antonio ed Elvira, Michelina e Carolina ci siamo conosciuti lì, sotto casa. Abbiamo parlato e sorriso su quelle panchine, come ancora fanno i nostri genitori, che però si erano già conosciuti, alla Siv o alla Magneti Marelli. Poi ognuno di noi ha preso la sua strada, trasferendosi vicino o lontano, anche all’estero. Ma quel luogo è rimasto tale anche perché ci abitano le nostre famiglie, dove si torna a Natale, Pasqua o d’estate oppure quando un genitore si ammala o ci lascia. L’ultima volta che ho visto Maria è stato proprio sotto alle case popolari. Non ricordo quando fu, ma non deve essere stato molto tempo fa. Forse l’estate scorsa. Ci siamo salutati come al solito, con un sorridente ciao, da amici e coetanei, che si conoscono da sempre. Non pensavo di doverla andare a salutare per l’ultima volta nella stessa Chiesa, dove una decina di giorni fa sono andato a salutare Angiolino. Non sapevo che avrei abbracciato Franco come avevo abbracciato Antonio.
Ora Maria, Angiolino, Tullio, Evandro, Giacomino, i due fratellini, zio Antonio, Giuseppe, Filomena, Mario e Ludovico (che se ne andò prima di tutti in una sera tragica di trent’anni fa) sono in un altro luogo, dove forse si stanno parlando, come al solito. Noi non possiamo che serbarne un grato ricordo, perché, insieme a tutti quelli che ancora ci sono, hanno saputo creare una comunità o, per dirla con Marc Augè, un luogo, cosa che non era scontata molto tempo fa, quando fu chiesto allo Iacp di assegnare una ventina di case ad altrettante famiglie.