Due delle letture di oggi – la prima e la terza – cominciano con una formula quasi identica: “In quel tempo”, “in quel giorno”. Contrariamente al solito, non si allude a un tempo che è dietro di noi – il tempo in cui Gesù diceva o faceva qualcosa – ma a un tempo che è davanti a noi. Tra noi e quel tempo, c’è di mezzo qualcosa di molto serio: un tempo di angoscia (1 lettura), una grande tribolazione (Vangelo).
Ogni anno, anzi, più volte l’anno ci troviamo davanti questa pagina oscura e minacciosa del Vangelo: Il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo splendore... Se ci fermassimo qui, la spiegazione sarebbe abbastanza facile: Gesù – si direbbe- parla dei “Novissimi”, cioè della fine del mondo e della storia, del suo ritorno finale come giudice dei vivi e dei morti (di quelli che sono ancora in vita e di coloro che dormono nella polvere” (1 lettura).
Una cosa lontana, un giorno che nessuno conosce e che non vale la pena neppure di indagare. Proseguendo nello stesso brano evangelico, cosa leggiamo? Leggiamo frasi come queste, frasi che riavvicinano bruscamente il campo: Egli è vicino, è alle porte... Non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute; e altrove: Vedrete il Figlio dell’uomo venire (Marco 14,62). Tutti sappiamo che cosa produce il corto circuito tra queste due prospettive; produce l’attesa imminente della fine del mondo che periodicamente ha scosso l’umanità, senza produrre nulla di buono, ma solo isterismo e angoscia. Ci sono dei gruppi religiosi che di questa attesa, periodicamente aggiornata, fanno il centro del proprio messaggio.
E’ un mezzo potente di presa sulla fantasia di gente incline al fatalismo (avventisti, testimoni di Geova). Alcuni di questi girano anche tra noi di casa in casa, per strada, incutendo timore con l’annuncio dell’imminente fine del mondo. Allora, diciamo con molta onestà una cosa: nessuno, neppure la Chiesa, ha ancora saputo spiegare esattamente il senso di questi discorsi che riguardano gli ultimi tempi del Vangelo. Forse ti domanderai: Ma Gesù avrebbe parlato per non farsi capire? No! E’che Gesù parlava con un linguaggio figurato di cui abbiamo smarrito la chiave, ma di cui si sa che non sempre tiene conto dello schema ben chiaro del passato, presente, futuro, con cui ragioniamo noi.
L’importanza è legata al fatto che una cosa avverrà, non al tempo in cui avverrà.
Seconda ragione: quelle parole di Gesù furono riprese dai discepoli, e fissate nella forma attuale, in un momento di estremo sconvolgimento politico, religioso e sociale: il momento in cui, con la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani, si assisteva, di fatto, alla fine del mondo giudaico ed era facile scambiare le fine di “un” mondo per la fine “del” mondo.
Quanti nei momenti più bui dell’ultima guerra, quando tutto crollava sotto le bombe, non hanno pensato che fosse venuta la fine? Quanti negli sconvolgimenti attuali non hanno pensato la stessa cosa? Tutto ciò ci fa comprendere come, anche al tempo degli apostoli, le parole di Gesù potessero venire facilmente reinterpretate e applicate ora a una lontana e definitiva fine, ora a fatti più vicini. Forse un giorno, con la pazienza e lo studio i biblisti arriveranno a fare più luce su queste parti del Vangelo, come è avvenuto per altre.
Veniamo al testo delle letture. Ho affermato che la cosa più importante è sapere che un fatto accadrà, non quando accadrà. E’ questo che riguarda la nostra vita. Il Signore è venuto una prima volta e verrà una seconda volta in futuro. Lo dice tutta quanta la predicazione di Gesù e della Chiesa primitiva. Il Regno di Dio è vicino, anzi è già presente in mezzo a noi nella persona di Gesù e poi della Chiesa.
Non occorre più il telescopio per scorgere di lontano il regno di Dio; lo puoi vedere, ma puoi entrarvi, e di fatto i poveri, i bambini, gli affamati, vi entrano a frotte, lo posseggono già. Come dire: la fine è già cominciata; il futuro è già qui, grazie alla risurrezione di Cristo da morte. Tutto questo è a disposizione già di questa generazione. Però il Regno deve ancora venire nella sua forma e condizione definitiva, quella che si inaugurerà con il grande giudizio e segnerà la fine di questa terra e di questi cieli e il principio di una nuova terra e di nuovi cieli nei quali regnerà stabilmente la giustizia. Qui, si tratta ormai di “quel giorno” e di “quell’ora” che nessuno conosce. In questa situazione, la seconda venuta non ci deve far paura; essa è una promessa non una minaccia. E’ la promessa di cui si nutre tutta la speranza cristiana.
Tutta questa lunga premessa nella spiegazione della Scrittura era necessaria. Passiamo alla vita. Noi siamo uccelli migratori che si preparano al gran volo. Ci reggiamo su un piccolo sostegno, l’uno accanto all’altro, ma in fondo soli come uccelli di fronte allo spazio vuoto che si apre davanti a noi. Ogni tanto, uno si stacca e scompare dalla vista. Diciamo: è trapassato, è scomparso. Ma dove va?
La Parola di Dio oggi ha cercato di dirci proprio questo: dove andiamo, il giorno che le gambe non ci reggeranno più e saremo presi dalla grande vertigine della morte. Ma ci ha anche detto un’altra cosa, più importante ancora: quello che possiamo fare adesso, mentre siamo ancora attaccati al filo della vita “entrare nel Regno, crescere, prepararci al gran passo”, in modo che esso sia gioioso e libero, come lo spiccare il volo dell’uccello che va verso il paese dove sa di trovare il sole e tanto caldo. Il “paese” al quale pensiamo a ogni Messa, quando diciamo: “Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.