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“La felicità non è fare ciò che si ama, ma amare ciò che si fa”

Commento al vangelo

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Gli uomini cercano la felicità con frenesia, ma troppo spesso, non oltrepassano il limite del piacere superficiale. La gioia è ben altro: è un sentimento di piena soddisfazione, sereno e puro di tutto l’essere, come un’onda trascinante ed inebriante. Gioia non di qualcosa, ma di Qualcuno. Gioia dell’attesa e della presenza. Gioia di innamorati che intrecciano sguardi e parole d’amore. Gioia della madre e del padre che attendono il figlio, erede delle proprie speranze e dei propri ideali. La gioia e la pace inimmaginabili che ci vengono da Gesù sono oltre questo e sono alla nostra portata. La Parola ci invita alla serietà dell’impegno per Cristo e la gioia che ne consegue. La domanda che rivolgono al Battista è anche quella che ogni credente dovrebbe, nella sua coscienza, rivolgere al Signore.

La risposta del Battista è un richiamo continuo alla responsabilità seria di fronte al Messia Gesù, Figlio di Dio. Le sue parole sono aspre e dure. Presentano il Cristo come un maestro esigente, che non ammette compromessi, equilibrismi, ipocrisie. Il ritratto che il Battista dà di Gesù ha un aspetto che dovrebbe far riflettere quei cristiani che hanno di Gesù una immagine vaporosa, dolciastra e sentimentale, da ‘santino’ devozionale. Il Signore Gesù, infatti, ci mette di fronte a scelte talvolta laceranti e sarà sempre “segno di contraddizione” (Lc 2,34). Il Battista concretizza alcune richieste del Cristo: “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto”: Gesti di amore; “Non esigete nulla più di quanto vi è stato fissato”: gesti di giustizia; “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno” (cfr. Lc 3, 11-14): gesti di mitezza e di non violenza. In un tempo in cui il mondo ci appare in una desolazione estrema, non sembra proprio il caso che qualcuno ci chieda di essere allegri.

Eppure questo invito alla gioia è continuo nella Scrittura. Ci viene rivolto più di ottocento volte, e in questa Santa Liturgia lo sentiamo ripetere dal profeta Sofonia, dal salmo responsoriale e da Paolo ai Filippesi. Ma la gioia a cui siamo invitati non è quella del supermarket natalizio, né quella plateale che può derivare da spensieratezza e da infantilità e neanche quella che deriva da successi di ricchezza e di potere. Queste gioie sono ‘illegittime’, abusive, non durature e talvolta anche peccaminose, perché vengono prima della giustizia, prima della mitezza (o non violenza), prima dell’amore. La gioia a cui siamo invitati è, invece, quella che viene dopo aver realizzato nella nostra vita questi tre comportamenti o almeno aver scelto questi tre comportamenti. È quella, quindi, che accetta le parole del Battista, che non si contenta cioè di aver ricevuto il battesimo di acqua (rito ormai sterile per molti), ma si lascia battezzare col fuoco. Il che vuol dire che la gioia del cristiano deriva, dopo la scelta dei tre comportamenti, dalla scoperta di una presenza (il fuoco!) in sé e accanto a sé, dall’incontro cioè con l’amabile Salvatore, dallo sbocciare di un amore con Lui.

È il momento nuziale dell’esistenza cristiana, il momento in cui il nostro povero io si trova di fronte al grande Tu. Chi ha provato questo momento, chi lo prova, sente davvero il carattere ‘illegittimo’ delle feste natalizie di consumo, che si tengono su, con la dimenticanza o la volontaria omissione delle tragedie del mondo. Ma per provare questo momento è assolutamente necessario (non lo ripeteremo mai abbastanza) passare tempi lunghi con Lui (è la preghiera), come si passano ore con l’innamorato/a. Sì, quante volte ci chiediamo: Che cosa dobbiamo fare? Quali esercizi facili dobbiamo fare per essere felici? È sufficiente fare e farci regali per essere felici? È vero che la felicità è desiderare quello che si ha? Un saggio ebreo diceva: “Io posso dirvi che cosa non bisogna fare. Quanto a ciò che bisogna fare, ognuno interroghi se stesso” (Mendel di Kotz). “Essere ciò ce siamo e diventare ciò che siamo capaci di diventare, deve essere il solo scopo della nostra vita” (Stevenson). Il fatto è che siamo felici senza sapere di esserlo. La felicità è a portata di tutti, ma i più, per pigrizia non la vogliono. Costa troppa fatica.

La risposta di Giovanni Battista in altre parole è: “La felicità non è fare ciò che si ama, ma amare ciò che si fa”. “È il dare, non l’avere, che fa l’uomo felice” (san Clemente Alessandrino). È il dono della nostra vita, quello che conta. Diamo la vita, non le chiacchiere. “Date ben poco, quando date le vostre ricchezze” (Gibran). Ricordiamoci che ci costruiamo una vita con quello che diamo! È impossibile vivere senza dare agli altri qualcosa di sé. Diamo il nostro tempo, il nostro buon esempio, la nostra parola, la nostra amicizia, la nostra testimonianza cristiana. Diceva un poeta indiano: “Ciò che dò agli altri, questo resta: non scenderà nella tomba con me, starà nelle mani di tutti” (Tagore). Ecco “che cosa dobbiamo fare”: “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini” (Fil 4,5). E anche noi proveremo, come dice Gesù, una grande soddisfazione: “C’è più gioia bel dare che nel ricevere” (At 20,35).

 

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