Abramo contratta con Dio, come fossimo ad un mercato orientale. Forse a noi pare una sceneggiata, in realtà ciò che sta al centro della contrattazione non è la merce, ma la relazione tra persone. Ancor più in questo caso, dove si tratta non di mercanteggiare della roba, ma di salvare una città. La motivazione della richiesta è la presenza dei giusti, in una situazione che sembrerebbe totalmente compromessa.
C’è una grande tradizione biblica, che pensa ai giusti come a coloro che tengono su il mondo, anche nel dramma della shoah, non sono mancati i giusti delle nazioni a testimoniare la speranza di un mondo diverso. Dio si affida a loro, affinché non prevalga la barbarie.
Abramo conduce il suo negoziato con grande determinazione e non sembra arrendersi. Va avanti e se i giusti fossero quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci...?
E’ a questo punto che si arrende, pensando di aver tirato troppo la corda. Non solo l’affare va in fumo, ci va l’intera città di Sodoma.
Come mai si è fermato a quota dieci? Pensava forse di essere stato troppo temerario?
E’ vero che anche noi, in determinate situazioni,riteniamo che non ci sia più niente da fare,mettiamo un tetto minimo, dopo di che non ne vale più la pena.
Qual è la soglia, oltre la quale non ha più senso salvare un matrimonio? Quando si è superato il limite, per impegnarsi in un progetto di cambiamento sociale, politico, ecclesiale?
Abramo si sarà pentito di aver ceduto a quota dieci? Non lo sappiamo, ma conosciamo il seguito della storia della salvezza.
L’ultima possibilità che la preghiera di Abramo non ipotizza, si realizza nell’evento della Pasqua, in nome di un solo Giusto, vengono salvati tutti.
Paolo ce lo ricorda con un’altra immagine tolta dal mondo della giurisprudenza: “ Con Cristo Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi, che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce” (Col 2, 13-14).
Se Dio è così, come si è mostrato nella Pasqua del Cristo, non si osa mai troppo con Lui.
La rivelazione di Gesù passa attraverso le parole, i gesti, e soprattutto la modalità stessa con cui vive la relazione con l’Abbà, papà nella lingua quotidiana degli affetti.
Quando i suoi discepoli gli chiedono; “Signore, insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”, risponde coinvolgendoci nel suo stesso modo con il quale si rivolge a Dio.
Da quel momento, innestati per dono dello Spirito nella relazione tra Gesù e Dio Padre, noi suoi discepoli osiamo dire: Padre nostro
Gli chiediamo che tutti lo riconoscano come un Dio così, che faccia venire a noi e dentro di noi il suo regno, che non manchi il pane da condividere e il perdono da scambiare.
Forse non percepiamo l’audacia di una preghiera, assai più di quella di Abramo, che si rivolge a Dio con l’insistenza di un amico importuno: “ Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” Non si tratta di pensare alla preghiera come alla soluzione magica dei problemi, anche perché le nostre richieste non vengono accolte sempre come pensiamo.
“Dio non esaudisce tutti i nostri desideri, realizza tutte le sue promesse” (D. Bonhoeffer).
Tuttavia non dobbiamo nemmeno rinunciare ad un dialogo con il Signore, che non teme di insistere, di osare, di provocare.
Come tra veri amici, non ci preoccupiamo anzitutto delle buone maniere, di un galateo da rispettare.
Apriamo il nostro cuore e invochiamo dal profondo di noi, della nostra situazione, facendoci comunque carico degli altri.
Si può essere insistenti fino allo sfinimento, se è in ballo la sorte di una città e se il pane che chiedi è per un amico arrivato all’improvviso.
Per questo il Padre lo chiamiamo nostro e non mio.