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È in crisi la qualità buona della vita

Una riflessione di don Michele Carlucci parroco di San Nicola

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Il vicario del Papa per la Città del Vaticano, Card. Comastri, nel libro “Tu sei trinità” parla di un giovane che un giorno gli confida: “Mi sento diverso da quando sono apparso in televisione”. Il Cardinale riferisce che gli venne in mente questo proverbio: “Un asino, anche se sale mille volte sul palcoscenico, non diventa un cavallo”. Commentando ancora il fatto, dice: “I doni degli uomini modificano l’avere, quelli di Dio l’essere”. L’apparire per molti giovani e meno giovani, soprattutto l’apparire in televisione, è, purtroppo, una vera e propria vetta, un sogno dorato, che sembra trasfigurare l’eletto o il fortunato. E così si è pronti a tutto pur di apparirvi. Non si capisce che lo apparire non muta nulla dell’essere di una persona, al massimo, aumenta l’avere. L’asino rimane tale, anche se i suoi ragli hanno un’audiance alta; le sue movenze da cavallo sono solo ridicole. Eppure l’illusione è forte: il successo lo alimenta e l’insuccesso non la scardina e, come diceva Terenzio “fallaciam alia aliam tradit”, “un inganno tira l’altro”.

Penso che la radice di tante fragilità sia il giovanilismo, ossia, la rinuncia da parte degli adulti (quanti hanno superato i trentacinque anni) a vivere la loro vocazione di responsabilità. Adulto è chi sa dimenticarsi di sé in vista della cura d’altri, mentre, da qualche tempo, da troppo tempo, si vedono all’opera solo uomini e donne, anagraficamente adulti, ma sempre più solo dediti a se stessi, a farsi gli affari propri. Un uomo e una donna che badano solo ai propri affari sono perfettamente funzionali al sistema che tenga in mano le redini ultime della nostra cultura: il giovanilismo e il consumismo. Ora qual è il consumatore perfetto se non chi pensa solo agli affari suoi, il consumatore individualista?

Vittime, quasi tutti, della civiltà moderna che ha moltiplicato all’infinito le necessità non necessarie, non si comprende che la vita vissuta “a farsi gli affari propri” è solo un colossale accumulo di cose che progressivamente sono mandate al macero per lasciare spazio ad altri oggetti più aggiornati e altrettanto non necessari. Abituati a dare peso a queste quisquilie si diventa insensibili ai veri valori e alle autentiche necessità.

La cultura massmediale alimenta modelli improntati al narcisismo e alla competizione estrema, nutre la disposizione verso l’individualismo e l’egocentrismo (Io sono la persona più importante del mondo e quindi merito tutto: devo avere tutto). È questa induzione all’immaturità, al giovanilismo, che oggi ferisce la vita buona e la gioia di tutti. La vita degli adulti e quella ovviamente dei loro figli, come giustamente rileva Umberto Galimberti: “Gli adulti stanno male perché, anche se non se ne rendono conto, non vogliono diventare adulti. La categoria del giovanilismo li caratterizza a tal punto da abdicare alla loro funzione che è poi quella di essere autorevoli e non amici dei figli. Gli amici, i figli li trovano da sé, e per giunta della loro età. Dai genitori vogliono esempi, e anche autorità, perché i giovani, anche se non lo dimostrano, sono affamati di autorità”.

La metamorfosi degli adulti.

Gli adulti non sono più quelli di una volta. È stato compiuto una rivoluzione copernicana circa il sentimento di vita. Oggi al centro delle loro attese non c’è la volontà di diventare adulto, e quindi responsabile della società e del suo futuro, ma quella di “restare giovane” a ogni costo. Al centro del loro immaginario vige il desiderio di restare giovane per sempre. E non s’intende qui la giovinezza dello spirito, bensì la giovinezza nella fisicità delle sue caratteristiche, oltre i limiti dei suoi originari e inconfondibili tratti (età, capacità riproduttiva, genuinità dello sguardo sul reale). Sembra che solo se riesci a mostrare la giovinezza nel modo di vestire, nella traccia del tuo corpo, nel modo di considerare l’esistenza come possibilità sempre aperta, solo allora hai diritto alla felicità. Perciò la giovinezza è grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l’affermazione della propria sensualità, del proprio successo, del proprio fascino: è viagra!

Quella degli adulti è una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo e sta procedendo a un inquinamento senza precedenti del nostro immaginario valore di base, dalla lingua che parliamo alla grammatica fondamentale dell’esistenza umana: la vecchiaia, la malattia, la fragilità umana, la morte e infine la stessa giovinezza.

La vecchiaia è diventata il nemico “numero uno” della nostra società: è parola eliminata da Wikipedia; nulla si vende se non è anti-age; è l’ultima e imperdonabile offesa che si possa rivolgere a un essere umano; è il tallone di Achille su cui mortalmente ci ferisce la pubblicità e il sistema economico capitalistico (a tutto possiamo resistere, tranne ciò che ci aiuta a lottare contro la vecchiaia). E ai vecchi che non riescono a mistificare la loro vecchiaia, non resta che la vergogna.

È cambiato anche il rapporto con la malattia, quindi con la fragilità umana: non è più un sintomo, un messaggio da parte del corpo, ma è intesa come un’interruzione, un blocco di motore, che basta rimuovere per ripartire. E abbiamo medicine sempre più potenti.

Un discorso simile vale per la morte: essa ha subito un incredibile esorcismo linguistico che l’ha fatta sparire dai manifesti funebri. In Italia, la gente scompare, viene a mancare, compie un transito, si spegne, si ricongiunge, si addormenta, va qui, va là… Nessuno che semplicemente… muoia!

È cambiato il rapporto con la giovinezza e con i giovani “anagrafici”: la giovinezza non è più un periodo preciso della vita; è il senso della vita. Per questo essa non indica semplicemente una stagione particolare dell’esistenza, irrepetibile e specificatamente destinata ad apportare un importante contributo al rinnovamento e ringiovanimento della società. La giovinezza è il senso della vita. Essa non può finire, non deve finire. Chi la possiede, nulla gli manca. Tutti abbiamo diritto alla giovinezza, nessuno può essere più giovane degli altri! E il risultato qual è? Che la nostra società pensa di non aver bisogno dei giovani, che può farcela anche senza di loro, che non siano necessari. Li rende perciò invisibili, marginali, producendo in loro un grave senso di “non senso”.

Quel che però è più grave e che questa metamorfosi degli adulti li renda sempre più di meno all’altezza della loro vocazione educativa, sia sul piano dell’umano sia su quello della dimensione religiosa. Di questa rinuncia all’impresa educativa ne approfittano i mercati che si assicurano per anni clienti sempre più immaturi, irresponsabili, narcisisti e fragilissimi.

La fatica di crescere e di credere.

Nell’essere dell’adulto il giovane dovrebbe trovare iscritta questa legge: “Lì dove sono io, là sarai tu”, quindi cammina, datti da fare. Questo dice che noi cresciamo guardando gli altri davanti a noi, guardando gli adulti. La parola “adolescente”, d’altronde, significa tempo per diventare adulti. Come? Guardando appunto gli adulti.

Che cosa comporta la rivoluzione compiuta dagli attuali adulti, del sentimento di vita che tutto fa scommettere sulla giovinezza? Comporta che, nella carne vivente di ogni adulto, il giovane trovi questa disperata legge: “Lì dove tu sei, io sarò”. Insomma: non ti muovere. Tu sei nel paradiso. Tu sei paradiso. L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile cammino sull’orlo della vecchia, della morte, del non senso, sono io adulto. Se per gli adulti, allora, il massimo della vita è la giovinezza e tutto il resto è noia, che cosa dovrebbero essi insegnare, segnalare, indicare, mostrare ai giovani? Se per gli adulti il vero paradiso è la giovinezza, perché i giovani dovrebbero allontanarsi da esso? Il mito del giovanilismo comporta pertanto l’abdicazione da parte degli adulti a essere meta possibile di quella crescita nel divenire che è l’essere del giovane, a essere cioè segnali, indicatori del destino di ciascuno: dover scegliere se stessi.

Ci si trova a essere adulti non adulti che non hanno nulla da insegnare ai giovani perché l’ideale educativo praticato è quello di provvedere alla costante manutenzione dei bisogni dei piccoli, nel risparmiare a "questa” fatica e traumi, nel trattare i figli come alleati e amici, spifferandogli tutti i segreti della vita, propria e altrui, con risultati totalmente disastrosi per la crescita e la salute psichica dei ragazzi. I “diversamente giovani” non educano dei figli, al massimo si preoccupano, che è ben altra cosa.

Il mito della giovinezza, poi, non è solo questione pedagogica e psicologica. È anche questione religiosa: questo mito è una fede, la fede della giovinezza, la religione della giovinezza. All’immaturità degli adulti, al loro giovanilismo, a mio giudizio, è da addossare l’attuale inefficacia della trasmissione della fede. Perché con la cresima i ragazzi, si allontanano dagli ambienti ecclesiali? Perché c’è tanta ignoranza biblica tra loro? Perché il rapporto tra i ragazzi e la fede è nel segno dell’estraneità e per molti di loro, la religione è solo un rumore di fondo che nulla incide sull’identità profonda? A mio parere, i ragazzi e i giovani di cui si evidenzia l’estraneità alla fede sono figli di adulti che hanno imposto una divergenza netta tra le istituzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che, pur non negando direttamente Dio, ha avvallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e pure l’ora di religione è un semplice passaggio obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società.

Così pensano i ragazzi e i giovani: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me. Se mio padre e mia madre non pregano, la fede non centra con la vita. Se non c’è posto per Dio negli occhi di mio padre e di mia madre, non esiste proprio il problema del posto di Dio nella mia esistenza. Si è così interrotta l’alleanza tra parrocchia e famiglia: la teoria del catechismo non trova pertanto più riscontro nella pratica degli adulti e questo fatto riduce l’esperienza della fede a una cosa “da bambini” e finché si è bambini. Non dimentico l’esperienza in una parrocchia: un bambino che frequentava diligentemente il catechismo, ma non partecipava mai all’Eucaristia domenicale. Alla mia domanda: perché frequenti il catechismo e non vieni a messa? La risposta: padre se non viene mamma e papà, perché devo venire io!

La sfida maggiore è data dalla cultura diffusa e imperante del mercato che non si preoccupa minimamente di questa deriva del mondo degli adulti e dei suoi effetti. Non solo non è preoccupata, ma alimenta a piene mani questa loro disposizione giovanilista.

Pertanto c’è bisogno di un parlare chiaro, di onestà, di una capacità di sottrarsi e sottrarre i giudizi al principio del politicamente corretto. Di dire le cose come stanno… di dire sempre pana al pane e vino al vino.

Il remare contro corrente è faticoso e scomodo.

Un giorno il mondo si svegliò e si scoprì ariano”. Lo scriveva sant’Agostino. La fede nel Dio unico in tre persone e nella divinità di Gesù Cristo si trovò improvvisamente perduta. Solo l’ardimento di sant’Atanasio riportò la barca della Chiesa al porto della vera fede. Millesettecento anni dopo continuano a ripetersi fenomeni analoghi di “perdita della verità” e d’intruppamento ideologico. Quando ero ragazzo, si rischiava di essere considerati “fuori dalla fede” e fuori dal buon senso comune se non si professava qualche venatura di marxismo. Decenni prima in Italia è stato logico piegare il capo al fascismo, se non nei principi teorici, almeno nella pratica quotidiana, e chi non ci stava, si tagliava fuori dalla società. Remare contro corrente è sempre stata impresa faticosa e scomoda. Oggi bisogna salire sulla barca del “gender”. Infatti, chi distingue tra maschio e femmina, chi contrappone il matrimonio di un uomo e una donna a ogni altra forma di convivenza; chi afferma che la libertà sessuale è distruttiva e rivendica alla famiglia la libertà dell’educazione all’amore senza ridurla a informazione sui metodi contraccettivi; chi condanna l’aborto o l’eutanasia come attentati alla vita; chi manifesta dubbi sulla fecondazione eterologa o anche omologa; sul versante parallelo, chi si adopera per l’accoglienza dei migranti e non programma lo sfascio dei barconi… sono emarginati e sottoposti a gogna mediatica. Ma magari bastano i sorrisini di squalifica di vicini e colleghi: “Il poverino è rimasto indietro; quel prete non è moderno…”. Quanti anni dovranno ancora passare perché tramontino anche queste nuove mode culturali (forse sostituite da qualcosa di peggio)? Chesterton diceva che arriveranno tempi in cui “chi dirà che l’erba è verde avrà la mano mozzata”. Se questi tempi sono ormai alle porte, è dunque giunta l’ora di dare testimonianza.

Il mito del giovanilismo, che è alla base dell’attuale metamorfosi degli adulti, funziona perché sfugge alla presa della ragione. Nelle famiglie si è diffusa una vera mutazione nei rapporti tra i ruoli: non è più il figlio che deve adattarsi alle norme simboliche che regolano la vita, sono i genitori che obbediscono alla legge stabilita dal capriccio. I genitori hanno rotto il patto generazionale con gli insegnanti, mostrando così ai figli che non esiste un “ordine” affidabile.

L’adulto dovrebbe essere capace di una parola giusta per il giovane conoscendo i mille sentieri che portano al Santuario; assumere su di sé la fatica del giovane a credere, aiutandolo a scegliere la via migliore, quella per la quale la vita vale per l’amore che siamo capace di donare agli altri.

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