Cari amici, sono trascorsi tre anni da quando sono stato mandato tra voi a testimoniare l’amore misericordioso di Dio e a inquietarvi con la Parola e i Sacramenti, mezzi necessari per non lasciar cadere nella banalità il tempo che trascorre. I Sacramenti, infatti, hanno il merito di ridare importanza alla nostra esistenza e, di fatto, accompagnano il nostro vivere e qualificano il vissuto umano: non lasciano che il tempo semplicemente “scorra” ma, attraverso la memoria, fanno sì che si capiscano gli eventi.
Essi ci aiutano a riprendere in mano la vita per farne un’esistenza, perché la vita si riceve mentre l’esistenza esige una scelta, una testimonianza: “ex-sistere” ossia prendere l’essere da. Fermarci, celebrare l’Eucaristia, riflettere, cantare e adorare esprimono una testimonianza: non vogliamo semplicemente subire il tempo che scorre inesorabile ma trovare un senso in tutto ciò che accade. Non cadiamo nell’illusione dell’immortalità come ha ricordato Papa Francesco ai collaboratori della Curia romana nel 2014: “Alcuni pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili”. Dobbiamo sempre più prendere atto della nostra provvisorietà.
La pubblicità fa di tutto per convincerci dell’immortalità: dalla crema antirughe, alle polizze anti-tutto, dagli 8 airbag alle porte blindate; i consumi cercano di anestetizzare la percezione del tempo che scorre ineluttabile. “Si fa un gran parlare di energie rinnovabili, delle risorse a rischio del pianeta; peccato che pochi si interroghino sul più prezioso e meno rinnovabile dei tesori dell’uomo: il tempo…” (Gerolamo Fazzino). Anche per noi sono vere le parole del poeta Fernando Pessoa: “ Di tutto restano tre cose: la certezza che stiamo sempre iniziando, la certezza che abbiamo bisogno di continuare, la certezza che saremo interrotti prima di finire”.
La percezione serena del limite è il primo passo per recuperare l’antica saggezza che fa riferire ogni cosa a Dio. Il cristiano deve fare sempre una lettura credente della storia. Comprendere che in tutte le vicende della vita, la cosa più importante è trovare sempre un motivo per lodare il Signore perché è dal riferirci costantemente a Lui, che non smarriremo la via del senso. Chi spera nel Signore, infatti, “non rimarrà confuso in eterno”. Possiamo essere per un po’ confusi, ma non finiremo i nostri giorni nella confusione del male.
Il male confonde l’uomo e agisce mediante la confusione, volendolo lasciare nella tristezza del disordine, ma chi confida nel Signore uscirà dalla confusione. Dobbiamo leggere il tempo in chiave di lode e di speranza: in Te ho sperato Signore non sarò confuso in eterno. Con umiltà riconoscere la nostra umanità redenta. Siamo consapevoli di non essere noi la risposta alla storia ma di essere chiamati a dare la nostra risposta nella storia. La risposta alla storia è sempre è solo Cristo. Lui che si è unito a noi e alle nostre piaghe per portare il balsamo della Sua tenerezza.
Dio ascolta oggi come ieri l’invocazione umana e si fa a poco a poco presente, fino a scavalcare i segni e i sogni umani, diventando tenera carne di bambino: la stessa sostanza degli uomini, le stesse tappe della vita, lo stesso sudore, lo stesso lavorare, lo stesso camminare, lo stesso morire. Il “profano” non è ricacciato in un angolo, ma pienamente assunto e trasformato e, per questo, reso abitabile come luogo del sacro e del Santo, senza esserne separato. Se Dio nella sua umanità ha fatto il falegname per trenta anni, la nostra umanità può essere pienamente “divina” nel quotidiano.
I segni mortali sono entrati a far parte della carne di Gesù! Caravaggio nella tela “Incredulità di San Tommaso” dipinge l’Apostolo mentre mette il dito nel costato, mostrando un Dio che non nasconde i segni del quotidiano, fatto di fallimenti, ferite e cadute. Il nostro, non è un Dio scolpito nella perfezione sognata dall’arte classica, ma è la reale gloria di un corpo umano, fatta carne, tessuto nel grembo di una donna, Maria, e straziato dalla croce. La soglia allora non è più fuori dal tempo e dallo spazio, nella perfezione irraggiungibile ma “è riscattata qui, adesso, nel corpo, nella fatica, nel lavoro quotidiano, nella misura in cui lasciamo abitare dal divino la statua che siamo, fino a che la pietra diventi carne del divino per via di grazia” (Alessandro D’Avenia). La soglia dell’incontro con Dio è in questo spazio e in questo tempo.
Un altro anno è trascorso! E allora? Educhiamo il nostro cuore all’umiltà nel rendere grazie per tutto ciò che di bello abbiamo ricevuto e che di buono abbiamo potuto realizzare. Allo stesso tempo chiediamo perdono per tutte le occasioni che ci siamo lasciati sfuggire per incontrare quel Dio che viene a cercarci e vuole servirsi di noi per arricchire la storia dei fratelli. Quante cose non sono andate bene anche per il nostro egoismo? Quante realtà potevano essere più umane con un maggiore coinvolgimento? Quante volte abbiamo lasciato cadere nel vuoto un’iniziativa solo perché non era stata pensata da noi. Quante volte abbiamo dubitato del bene che si stava realizzando? Fermiamoci: riflettiamo, ringraziamo e chiediamo perdono! Dio chiede lo sforzo della memoria perché possiamo imparare la lettura orante della storia in cui sempre opera la Sua mano.
Anche in questo tempo certamente ci sono stati motivi di gratitudine a Dio e agli uomini. Ognuno di noi può ringraziare per il dono della vita e per tutti i benefici ricevuti dal Signore.
Credo, però, sia opportuno esprimere dei propositi sia ad intra che ad extra. Ad intra, innanzitutto per quanti condividono un cammino di fede cristiana o vogliono rilanciarlo. L’invito è quello a facilitare l’esercizio della memoria attraverso l’esperienza del memoriale della Pasqua di Cristo Signore. Utilizziamo la lettura credente dell’esistenza nella Pasqua settimanale che è la Domenica. Perché non ripartire da quel terzo Comandamento del Decalogo che ci chiede di fermarci per rileggere il nostro tempo come un “tempo” pieno? Perché non impegnarci a vivere il comandamento che Dio per primo “si è imposto”? Il testo biblico dice che il Signore “…portò a compimento ciò che aveva fatto e cessò nel settimo giorno ogni suo lavoro” (Gen 2,2) a mostrare che per scoprire il riposo occorre contemplare le Sue opere, e per contemplare davvero occorre ripartire dal Suo esempio. Per saziare il nostro cuore di gioia è necessario nutrirlo di eternità.
Eternità che si dona nel “segno” della Parola e dell’Eucaristia. Chi riscoprirà o scoprirà la Domenica come giorno per Dio e per l’uomo si accorgerà di quella protezione che viene dall’appartenere a Dio. Allora si sveglierà dal sonno dell’illusione di credere di avere tempo o di non avere tempo. Noi non possediamo il tempo, non abbiamo effettivamente il tempo ma – come ha scritto qualcuno – “siamo tempo”, tempo che scorre e che - nella visione della fede - è visitato dall’eternità. Convinciamoci che abbiamo bisogno della visita di Dio attimo dopo attimo, visita che va contemplata nel Giorno del Signore, che va riconosciuta nella Messa domenicale “luogo” identificativo del cristiano.
Non lasciamo la Messa all’ultimo atto della Domenica, come pillola tranquillante della coscienza: sia “primo”, davanti a qualsiasi cosa e interesse pur lecito. Cerchiamo di incoraggiare anche altri a questa sana abitudine di fermarci a Messa e di partecipare attivamente alla festa con il Datore di ogni bene. Rivolgiamo con coraggio ad altri l’invito a ritrovare equilibrio nella settimana ripartendo dalla Messa domenicale. Parafrasando un motto rabbinico si potrebbe dire: “Custodisci la Domenica e la Domenica custodirà te”.
Per uno sguardo “ad extra”, ossia per la testimonianza da dare all’esterno (anche per coloro che sono solo incuriositi da quanto dico), mi permetto di riferirmi alla vigilanza su alcune malattie che forse possono vederci complici più o meno consapevoli. Attingo al messaggio che nel dicembre 2014 Papa Francesco ha rivolto ai suoi collaboratori di Curia citando non più solo le cinque piaghe della Chiesa (di rosminiana memoria) ma addirittura quindici malattie del credente, chiarendo che esse “sono naturalmente un pericolo per ogni cristiano e per ogni curia, comunità, congregazione, parrocchia, movimento ecclesiale, e possono colpire sia a livello individuale sia comunitario”. Mi permetto senza alcuna pretesa esaustiva di riprendere solo tre malattie che possono riguardare anche la nostra realtà.
Mi riferisco alla malattia della rivalità e della vanagloria, dell’indifferenza verso gli altri e, in ultimo, a quella dei circoli chiusi, dove l’appartenenza al gruppo diventa più forte di quella del corpo. Questi malanni hanno come radice la nostalgia. Anche per noi il rischio è sempre a portata di mano. Queste tre malattie credo devono essere tenute sempre sotto controllo perché, pur non potendo mai essere debellate del tutto, possono almeno essere riconosciute e combattute.
Siamo vittime della rivalità e della vanagloria, siamo abituati all'indifferenza e bloccati nel nostro piccolo circolo quando viviamo in funzione di ciò che riguarda l’immagine. In alcune circostanze si nota come non importi la verità, ma ciò che possono credere gli altri, vedere esteriormente gli altri. Non interessa il bene della comunità ma ciò che si potrà dire di taluno o talaltro. È la malattia che porta a essere uomini o donne falsi, da san Paolo definite “nemici della Croce di Cristo…si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” (Fil 3,19). L'appiattimento di questi mali porta spesso a distruggere ciò che qualcun altro ha costruito o, peggio, a continuare secondo uno stile della gratificazione facile e immediata. Alla radice di tutto c'é appunto la nostalgia, origine del terribile cancro della rivalità. Ovunque c’è un minimo di egemonia da esercitare, si affaccia la tentazione che inquina la comunità di una corsa frenetica verso il nulla.
Perché la cattiveria è un rubare la speranza. Sia chiaro: l'uomo è sedotto da queste malattie morali ma è anche capace di rialzarsi, di prendersi cura di sé e degli altri. Dobbiamo ripartire da noi. Occorre imparare a “camminare accanto” e “non sopra” le persone. Camminare accanto come fa Gesù che convince con il bene, con la bellezza della Verità che produce frutti duraturi nel tempo e non gratificazioni effimere che lasciano l'amaro in bocca. Gesù cammina accanto e non sopra le persone, perché sa che si costruisce bene solo rispettando le coscienze. Anche la nostra realtà apprenda da Gesù a camminare accanto!
Il credente deve dare il proprio contributo di speranza. Nell'impegno di schiettezza, rispetto, impari dal Risorto che apparendo agli Apostoli, ha in sé i segni della passione. Riprendendo le parole di Mons. Tonino Bello, ripeto anch'io che il credente ha, come Gesù “mani bucate e piedi forati”. Mani bucate per aiutare il povero e per distribuire il buon esempio, per donare il tempo di Dio ai fratelli, per usare i talenti in vista di una società migliore. Il credente ha anche i piedi forati. Condivide cioè le sofferenze dei poveri, cerca di gettare luce e senso su quelle malattie in parte nascoste della vita umana, illumina con il Vangelo le ferite degli uomini mostrando la compagnia di Cristo nelle sconfitte. I piedi forati dei poveri hanno bisogno di trovare le nostre attenzioni anche quando non abbiamo una soluzione: Gesù è l'amico al quale dobbiamo condurre tutti quelli che hanno delle lacrime soffocate. Cristo è la Speranza delle genti. Cristo è la nostra Speranza.
