Secondo alcune accreditate correnti del pensiero psicologico può succedere (e, di fatto, spesso succede) che persone appartenenti alle più diverse categorie sociali, culturali, economiche, tendano a mettersi artificiosamente in evidenza, manifestando invece in tal modo una loro condizione di disagio o soltanto di temuta inadeguatezza.
La formula utilizzata è spesso quella di riconoscere e celebrare solennemente e pubblicamente i propri meriti, poco importa se veri o presunti.
Ma a me non importa, in questa sede inseguire le teorie degli psicologi che fanno risalire a passate carenze affettive da parte dei genitori quel calo dell’autostima che sarebbe alla base della spasmodica ricerca dell’attenzione altrui da parte dei soggetti in questione.
Mi interessa, piuttosto, cercare di individuare e segnalare qualche concreto esempio di autocelebrazione nei quali mi sono di recente imbattuto.
E allora comincerò col dire che, secondo me, autocelebrarsi è fare pubblicità a sé stessi; né più né meno che fare un annuncio, un atto di promozione commerciale o anche soltanto di propaganda.
L’autocelebrazione è una collaudatissima tecnica di vendita, se vogliamo, ma non solo né propriamente a fini commerciali; è uno strumento seduttivo (e come ho già detto non necessariamente veritiero) largamente utilizzato da chi cerca il consenso di un pubblico più o meno vasto (captatio benevolentiae la chiamavano nell’antica Roma).
E come tale lo hanno utilizzato e continuano a utilizzarlo a piene mani soprattutto i politici di tutti i tempi, ma anche i predicatori, gli imbonitori, gli arruffapopoli, i capocomici... con recente, progressiva, inarrestabile, ipertrofica crescita ‘tele’guidata grazie alla capillare diffusione di ‘media’ e ‘social’.
L’autocelebrazione, in fondo, è quel comportamento artefatto grazie al quale si estrinseca il culto della propria personalità (leggi ‘narcisismo’) tendente, piuttosto che a conoscere, a farsi conoscere (spesso esagerando toni e contenuti).
Come quando, giusto per citare a caso, si è sbandierato come chissà quale trionfo la qualifica di “Città che legge”); di fatto tale riconoscimento è stato attribuito a ben 369 dei 745 comuni italiani con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, che significa il 49,53%, cioè uno su due. Certo, meglio che niente, ma mi pare proprio che c’è ben poco di cui andare fieri o vantarsi!
O come quando si legge del grande successo di una manifestazione in una piazza stracolma, laddove (non solo per le esigenze di distanziamento sociale) c’erano invece evidentissimi spazi vuoti, sempre più vuoti man mano che la manifestazione si trascinava!
E allora, giusto per concludere, sarà bene che qualche volta non ci autocelebriamo e lasciamo che a giudicarci siano gli altri... E non sarebbe male, poi, tenerne conto!