Com’era prevedibile, la crisi economica 2008-2014 e la crisi attuale determinata dalla pandemia da Covid-19 hanno prodotto effetti sensibili sulla tenuta delle democrazie in tutto il mondo. Dapprima l’ascesa dei populismi e sovranismi, poi le crescenti difficoltà dei partiti storici dell’Occidente hanno infatti rimesso in discussione valori e metodi della democrazia, intesa come sovranità del popolo, cioè governo di interessi di massa seppure attraverso la rappresentanza di partiti e movimenti.
L’assalto al Parlamento statunitense, il 6 gennaio scorso, da parte dei sostenitori di Trump; le restrizioni alle libertà o l’autoritarismo messi in campo anche da governi europei e mediterranei (in Russia, Ungheria, Polonia, Turchia ecc.) ci ricordano la fragilità delle democrazie, soprattutto quando la volontà e la pressione popolare appaiono deboli o incerte. Quanto all’Italia, è da un quarto di secolo che assistiamo ad un lento svuotamento dei meccanismi di partecipazione e di rappresentanza istituzionale; un processo che tuttavia negli ultimi anni ha subito una evidente accelerazione con la riduzione dei partiti da luoghi di analisi e confronto, creazione di linee politiche e mediazione sugli interessi a forme irrigidite piegate soprattutto a logiche di consenso e di carriere. Grazie anche alla attuale legge elettorale, possono infatti essere agilmente portati in Parlamento amici e nominati dei segretari. Siamo così passati da un Paese che discuteva di tutto (con la democrazia diretta e indiretta) e offriva opportunità di partecipazione e rappresentanza a tutti (anni ‘70 e primi ’80 del Novecento) ad un Paese in cui le decisioni si prendono solo agli alti livelli. Ricordiamo che la crisi della Repubblica romana ebbe inizio quando i soldati e la borghesia invece di rispondere al Senato cominciarono a rispondere ai generali, che attuarono la svolta istituzionale proclamandosi imperatori.
Non si spiegherebbe altrimenti perché sia il governo Conte 1 che il Conte 2 siano stati buttati giù quando il clima nazionale non era contrassegnato da forti tensioni sociali e quando godevano del consenso di una parte significativa della popolazione. Questo normalmente non avviene nelle democrazie repubblicane, dove i governi cadono sì ma allorché vengono apertamente contestati o non godono più del consenso popolare. Queste anomale crisi di governo sono pertanto il frutto di scelte politiche che non tengono conto degli interessi nazionali ma di quelli dei capipartito, pressati talora da poteri forti, anche multinazionali, che certamente hanno a cuore più il futuro dell’impresa nel mercato globale che quello di interi Stati (Italia compresa). Operazioni che per passare a livello di massa hanno naturalmente bisogno del conforto della stampa e degli organi di comunicazione, il quarto potere, che non di rado mortifica il lavoro delle persone serie e fa da cassa di risonanza ai parolai che annunciano grandi sogni e salvatori della Patria: in quest’ultimo caso - suo malgrado, occorre dirlo - la persona di Mario Draghi (che peraltro tra i suoi meriti ha anche quello di parlare poco e non amare i talk-show).
Non fa eccezione ovviamente a quanto detto l’ambito locale. Nei paesi e nelle cittadine del nostro comprensorio, da almeno un ventennio a questa parte siamo passati dalla discussione sui grandi progetti: aree metropolitane, fondazioni, patti territoriali, accordi interregionali ecc. all’amministrazione del locale e del contingente con le poche risorse disponibili. La partecipazione democratica, cioè l’espressione di idee e il confronto per la loro traduzione, si è progressivamente ridotta a poca cosa, il ruolo dei comitati e delle associazioni sclerotizzato, quello dei partiti finalizzato alla mera ricerca del successo elettorale. Le stesse campagne per le elezioni amministrative si caratterizzano puntualmente come un breve (all’incirca un mese) periodo di intensa attività propagandistica quando centinaia di aspiranti consiglieri comunali e decine di candidati sindaci vanno a chiedere il consenso ai rispettivi elettorati sulla base di proposte più o meno limitate e di programmi frettolosamente costruiti: con la pretesa poi di poter affrontare e risolvere problematiche decennali nel tempo di un’unica amministrazione.
In conclusione, non tutto è addebitabile alla cattiva politica perché certo oggi pesano tanto la pandemia da coronavirus (che ha interrotto molte relazioni umane e culturali) quanto le pressioni del mercato globale, ancora non normato.
Cosa possiamo fare? Almeno la nostra parte di buoni cittadini poiché, come si è visto in pandemia, nonostante i richiami e le sollecitazioni non tutti hanno assunto atteggiamenti responsabili contribuendo così ad alimentare un’emergenza che non avrà presto fine. E poi, se pure vogliamo tutelare quel che è rimasto della democrazia, evitare perlomeno il fatalismo e il qualunquismo, non solo per rivitalizzare la politica ma la stessa economia dei territori. Non dimentichiamo che le dinamiche degli ultimi anni hanno ulteriormente desertificato l’area interna del Vastese e che persino il trend demografico e occupazionale delle cittadine costiere si è interrotto ed evidenzia anzi degli indici in evidente calo, ciò che dovrebbe indurre a riflessioni un poco meno sommarie di quelle che finora sono state fatte.