Un commentatore di questo brano evangelico intitolava la sua riflessione con il titolo di “Parabola dell’uomo graziato ma spietato”. E’ una parabola in cui domina la caratteristica dell’esagerazione. E’ spropositata la somma di cui il servo è debitore verso il re. Diecimila talenti. Difficile, oggi, tradurre la somma nella nostra moneta. Per farsi un’idea approssimativamente è bene tener conto che la rendita annuale di Erode il Grande arrivava a 900 talenti. Diecimila talenti, quindi sono una somma enorme, non lontana dai 6 miliardi di euro.
Appare perciò ingenua la supplica del servo: “Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Anche una dilazione di venti, cento anni, non gli avrebbe permesso di saldare il debito.
Il padrone mosso a compassione va ben oltre la richiesta del poveraccio. Non si limita a concedere una proroga nel pagamento, ma condona totalmente il debito.
La lezione è trasparente. Ognuno di noi, nei confronti di Dio, è debitore insolvibile. Se lui non assume l’iniziativa, se non interviene l’atto gratuito del suo perdono, smisurato, da soli, con i nostri sforzi, le nostre opere, non riusciamo mai a conquistare la salvezza.
La salvezza è grazia. Non ci si salva da soli. E’ possibile soltanto “essere salvati”.
All’uscita, il servo, insperatamente graziato, non trova di meglio che afferrare per la gola un collega che gli deve poche decine di migliaia di euro, una somma miserevole, urlandogli a muso duro: “Paga quel che devi”.
Ed ecco la seconda lezione: i debiti che gli altri hanno contratto nei nostri riguardi, in confronto col debito che noi abbiamo con Dio, a ciò che abbiamo sottratto a Dio con il peccato e con i nostri rifiuti, sono quisquilie.
Torti, offese, sgarbi, indelicatezze varie: tutte cose trascurabili se paragonate al nostro peccato.
E il nostro comportamento diventa meschino, miserabile, come quello del servo graziato, quando dimentichiamo questa sproporzione.
Ma quale è la lezione fondamentale della parabola? “Servo malvagio –gli dice il re quando lo ritrova davanti in seguito all’informazione di alcuni compagni indignati –non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” Ecco l’equivoco imperdonabile del servo graziato e spietato. Ha creduto che il perdono potesse tenerselo per sé. Non ha capito che doveva a sua volta trasmetterlo al collega che lo supplicava. Non si è reso conto che non aveva il diritto di consumare egoisticamente la grazia ricevuta, ma doveva a sua volta concederla all’altro. Non aveva compreso che il perdono non poteva “finire” alui, fermarsi, ma doveva continuare, arrivare fino al fratello.
Come sarebbe stato bello se, in risposta al gesto del suo padrone, anche lui, avesse mandato in pezzi il documento di ciò che il collega gli doveva.
Troppe volte, forse, anche noi dimentichiamo che il perdono che riceviamo da Dio va donato, condiviso, partecipato con i fratelli.
Allora stracciamo il nostro miserabile biglietto (con su scritto quanto ci deve il fratello), non perché Dio ci condoni il debito, ma perché Dio ha già stracciato il foglio che ci riguardava…