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“Figlio, compi le tue opere con mitezza. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile”

Commento al vangelo

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“Figlio, compi le tue opere con mitezza. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile” (Sir. 3,17-18).

Non è di moda l’umiltà, nella società dello spettacolo in cui tutto va sempre comunque esibito ed ostentato. Una grandezza che non si mostra non sembra nemmeno tale, per cui il proprio status sociale deve apparire da come ci si veste, dall’auto che si guida, dalle persone che si frequentano. E’ vero che la crisi finanziaria sta riducendo i consumi, ma ci si affretta a dire che tutto deve tornare come prima. Pochi richiamano ad una svolta nel segno della sobrietà, della decrescita, del consumo critico e solidale. Le parole antiche sembrano sapienza d’altri tempi, consigli da vecchi, moralismi del passato. C’è anche chi finge umiltà per essere ancora più adulato, chi si mette in disparte, ma in attesa della rivincita.

Il consiglio di Gesù sembrerebbe frutto di questa logica, “quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: Amico, vieni più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14, 10).

In realtà lo dice osservando la corsa ai primi posti, che si scatena ogni volta che c’è da accaparrarsi qualcosa; metafora, purtroppo, della vita nella quale si fa a gomitate pur di arrivare prima dell’altro.

Gesù osserva con ironia che nemmeno conviene fare così, perché potresti essere declassato dinanzi a tutti; mentre se ti metti dietro, può sempre capitare che ti facciano passare avanti.

Non fa una predica moraleggiante, mette di fronte ad un comportamento e al suo possibile esito; e conclude: Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11).

E’ uno dei tanti rovesciamenti, cui ci abitua il Vangelo, che mette in crisi i parametri assodati e le scelte scontate, ne siamo per lo meno interrogati, su quale sia la prospettiva più giusta nel guardare alla vita.

E se fosse come dice la Parola di Dio?

La vicenda di Gesù, del resto, testimonia una grandezza che non teme di abbassarsi; così è di Maria e di tanti personaggi biblici, per i quali le grandi cose non sono quelle che facciamo noi per passare alla storia (e sono spesso guai per tutti, quando lo si persegue a tutti i costi) ma quelle che opera Dio nei nostri riguardi. A riconoscerle sono i piccoli e i poveri, i non considerati e gli scartati.

La saggezza biblica afferma: Grande è la potenza del Signore e dagli umili egli è glorificato (Sir 3,20).

Per questo Gesù chiede ai suoi di non fare come fanno i grandi del mondo e le relazioni tra credenti dovrebbero improntarsi all’umiltà e alla semplicità del Maestro.

Stupisce che invece nella chiesa e nella società continuino a perpetuarsi le logiche della carriera, dei titoli onorifici, delle vesti preziose.

Peccati veniali, si dirà, ma pur sempre segni problematici di un vangelo proclamato e non vissuto.

E nemmeno è sufficiente dire che basta l’umiltà personale, quando si è espressione di un’istituzione.

Come minimo, Gesù ci sferzerebbe con la sua ironia. Siamo infatti provocati a vivere, pur dentro il mondo, con modalità alternative capaci di mostrare che cosa potrebbe voler dire un’esistenza improntata evangelicamente.

Pensiamo al valore della gratuità, a fronte di un mondo dove si continua a dire che nessuno fa niente per niente. Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi e sarai beato perché non hanno da ricambiarti (Lc 14,13-14).

Gesù ci ha mostrato concretamente che la vita può essere una tavola, dove l’invito è anzitutto per chi è ultimo e ciò che si offre non chiede il contraccambio. Proprio a mensa nella cena d’addio, dice ai suoi che li ama non perché lo amino, ma perché si amino gli uni gli altri.

L’invito è di entrare con le nostre scelte nella logica della gratuità, che permette di accoglierci come siamo, senza etichette escludenti. Se facciamo così, nel povero che mettiamo a tavola scopriamo la nostra povertà, nello storpio la nostra infermità, nel cieco la nostra cecità.

Allora la gratuità non è a senso unico – potrebbe infatti diventare presunzione di chi è sempre e comunque più bravo degli altri – si fa invece reciprocità.

Non c’è chi dà e chi riceve, ma ciascuno ha bisogno dell’altro e si fa dono all’altro.

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