Luigi Di Stefano, “l’amico di tutti”, ha compiuto 96 anni. E’ ancora vispo e arzillo, ma la sua bocca è priva completamente di denti. Abita in via Orientale a San Salvo. Ed ecco la sua storia.
Luigi Di Stefano presta il servizio militare nelle vicinanze di Pola, come guardia costiera.
L’8 settembre del 1943, la sua compagnia viene fatta prigioniera dai soldati tedeschi ed imbarcata su una nave che approda al porto di Venezia. Suddivisi in plotoni di 40, i soldati vengono sistemati in un vagone-merci che parte per una destinazione ignota. Sopravvivono con un mestolo al giorno di una brodaglia gialla. Dentro quel vagone non si respira e non c’è luce per poter muoversi. I ”bisogni” si fanno al cospetto di tutti, senza alcun pudore o vergogna. Il fetore è insopportabile. Viaggiano otto giorni e otto notti. Giungono in un luogo stabilito dal comando tedesco. E’ un lager delimitato da un intreccio di filo di ferro spinato. I reticolati sono percorsi da una corrente ad alta tensione. I gendarmi armati fino ai denti li tengono in stretta sorveglianza. I prigionieri, durante la prima settimana, non hanno né acqua né cibo. Il freddo penetra fino alle ossa. Luigi, per miracolo, riesce a scampare alle camere a gas. Le sue condizioni di salute peggiorano. Dopo un anno e mezzo di sofferenze, è mandato al “lavoro forzato”, in una fabbrica di aeroplani (caccia 109) vicino a Neumunster. Un giorno, al momento del “pranzo” (due patate lesse e una mela), mentre Luigi osserva il cibo con atteggiamento ironico, essendo la mela quasi del tutto marcia, ad un tratto gli arriva un sonoro ceffone seguito da un calcio allo stomaco. Il dolore è fortissimo. Luigi cade a terra e sviene. Rialzatosi, un gendarme lo costringe ad ingoiare la mela e il picciolo. E’ trasferito in una famiglia di contadini tedeschi, sempre strettamente controllato dai soldati nazisti. Di quella famiglia fa parte anche Hellen, una splendida donna dagli occhi cerulei, pelle morbida e fresca, labbra ben disegnate, forme provocanti. Alle tre del mattino, Luigi è già pronto per la raccolta delle barbabietole: diciassette ore di lavoro giornaliero. Dimagrisce giorno per giorno. E’ irriconoscibile (volto scavato, smilzo), ma riesce a sopravvivere. Peregrina per tre mesi. Dopo aver percorso a piedi quasi tutta la “Statale adriatica”, il 2 settembre 1945 riconosce le periferie di San Salvo dalla croce in legno del “Calvario”. E’ l’alba. L’aria è dolce; spira un venticello fresco; stuoli di rondini si rincorrono con volo radente. Si diffonde un effluvio di peperoni fritti. Si sente il cigolio continuo delle ruote di carretti sovraccarichi di letame. Luigi percorre via Roma, entra alla “Porte de la Terre”, sotto la quale, nei giorni del taglio del grano, si accovacciano i mietitori venuti da ogni parte d’Abruzzo, ma soprattutto da San Buono, San Giovanni Lipioni, Carunchio, Montazzoli e dalle Puglie. Il suo primo pensiero è di andare a ringraziare San Vitale. Entra in chiesa e bacia la statua del martire. Con le gambe vacillanti, il viso coperto dalla barba, logoro e scalzo, si avvia verso la sua vecchia casetta . Il cuore di Luigi batte forte. Un lieve picchio con le nocche delle dita alla porta di quercia: “Ginesia, apri, sono il tuo Luigi!” In un attimo Ginesia è lì, davanti a lui. Un groppo alla gola smorza ai due sposi la parola. Poi, un pianto irrefrenabile ed un interminabile abbraccio.
Michele Molino